Il ruolo dello psicologo all’interno dell’équipe multidisciplinare in cure palliative è fondamentale nel percorso di accompagnamento al fine vita dei malati inguaribili e dei loro familiari. Insieme alla dott.ssa Francesca Brandolini, responsabile Area Psicologia di VIDAS, abbiamo ripercorso le finalità principali del nostro servizio di psicologia e raccolto la testimonianza delle dottoresse della nostra équipe psicologica.
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Lo scopo principale dello psicologo in cure palliative è quello di garantire supporto gratuito ai malati e ai loro familiari durante tutto il percorso dell’assistenza. La possibilità di beneficiare del supporto psicologico viene offerta a tutte le famiglie, sia al momento della presa in carico sia durante il prosieguo dell’assistenza, così come in seguito nella fase del sostegno al lutto.
Le principali situazioni che richiedono l’assistenza psicologica in un percorso di cure palliative sono:
Spesso è lo stesso paziente a chiedere di essere supportato perché la malattia, intaccando in maniera violenta e improvvisa le abilità fisiche e le abitudini di una vita, impatta pesantemente sul proprio ruolo familiare e sociale, fino a mettere in crisi il riconoscimento della propria identità.
“L’essere umano è per sua natura dotato di grandi capacità per affrontare le sfide della vita, ma quando l’intero equilibrio familiare viene messo a dura prova dalla malattia, il supporto dello psicologo può servire a fornire un nuovo paio di occhiali con cui leggere il cambiamento ed individuare le risorse, personali e di contesto, a cui poter attingere per far fronte alla situazione”. (dott.ssa Francesca Brandolini)
Oltre all’attività clinica con i pazienti e le loro famiglie, le psicologhe Vidas sono parte integrante delle équipe, contribuendo con il proprio sguardo a creare un clima di collaborazione e confronto e valorizzando le differenze tra le diverse figure professionali.
Il ruolo dello psicologo in cure palliative è molto diverso da quello classico di chi esercita in uno studio privato, perché la cornice in cui lavora è fatta di apparente informalità, di vicinanza fisica, di caffè condivisi con i familiari, di mani tenute in silenzio quando il pensiero diventa indicibile, di colloqui che non hanno una durata prestabilita, ma che tengono conto dei tempi variabili della malattia.
La dott.ssa Brandolini ci spiega anche quali sono le qualità indispensabili di qualsiasi psicologo, ma soprattutto di chi si relaziona con un paziente malato inguaribile:
“Non cambia l’importanza di un ascolto non giudicante, di trovare la giusta vicinanza, di portare sé stesso nella relazione, mettendosi a disposizione dell’altro, nella consapevolezza della preziosità di ogni singolo incontro non solo per l’altro ma anche per sé stesso. Da persona a persona”.
Si pensa sempre che lo psicologo sia portatore di verità assoluta e che sappia cosa sia giusto fare, magari senza farsi coinvolgere troppo a livello emotivo. Questo lo “incastra” nel ruolo di esperto competente e performante, che deve avere risposte necessariamente corrette e giuste. In realtà chi fa un lavoro clinico con i pazienti, soprattutto in cure palliative, non ha questa visione, anzi ritiene che per fare un buon lavoro non sia sempre necessario spiegare la morte e affrontare in maniera diretta le angosce e le paure ad essa correlate. Il grande compito dello psicologo è piuttosto permettere al paziente di potersi vedere per quello che è e nel momento in cui è, aiutandolo ad esprimere, a modo proprio, il suo mondo interiore.
“Fare psicologia, in cure palliative, significa anche toccare, accarezzare, essere insieme nei gesti più piccoli che ammorbidiscono le emozioni più dure e dolorose.” (dott.ssa Carlotta Ghironi)
Ad oggi sono sei le psicologhe in carico al servizio di assistenza VIDAS e durante l’ultimo anno sono stati svolti 3.000 colloqui nei diversi setting assistenziali, oltre 400 colloqui di sostegno al lutto e quasi 500 colloqui telefonici dello sportello “Distanti ma non soli”. Un’attività intensa e complessa, che alcune delle nostre terapiste hanno voluto raccontarci attraverso una breve testimonianza delle loro esperienze condivise con i pazienti.
Valeria è stata un dono che conserverò sempre nel mio cuore. Nel nostro lungo percorso insieme abbiamo condiviso emozioni, sorrisi, rabbia, amarezza, gratitudine. Abbiamo camminato insieme per un tratto di strada, sempre vicine e complici. L’ho accompagnata nella ricostruzione della sua storia e ciò le ha permesso di dare voce alle sue emozioni autentiche, fino a quel momento inespresse, da cui è emersa una identità sfaccettata e complessa. Lei amava molto questo spazio di incontro, condiviso fino alla fine.
Arrivati alla fine di un’assistenza capita spesso di fermarsi a pensare, di tornare indietro col tempo e renderci conto di tutto il cammino fatto con i pazienti e le loro famiglie. E la storia di Monica ha dato modo a noi come équipe di scoprirci stupite e grate di aver condiviso questo tratto di strada con lei. Nonostante le difficoltà e la fragilità che si incontra spesso nelle case dei nostri pazienti, il restare, la condivisione e la comunicazione chiara degli obiettivi è stata la chiave di volta che ci ha permesso di mantener saldo il timone, anche nei momenti in cui sembrava non esserci una direzione ben definita. Lei ci ha guidate e ci ha mostrato come si può vivere nonostante la malattia.
Non tutto passa attraverso le parole, a volte basta il silenzio. Penso agli incontri con il Signor Franco, un paziente che mi è rimasto nel cuore. Quando arrivavo a casa sua, lo trovavo sempre davanti alla finestra a fissare la piazza su cui dava il balcone. La vita che scorreva fuori da casa era diventata un mezzo per parlare della sua di vita e della situazione in cui si trovava, senza mai fare alcun cenno alla malattia. Non ha mai parlato della sua situazione in maniera diretta, a volte i colloqui trascorrevano in silenzio, con la musica in sottofondo, a guardare entrambi fuori. Le immagini ci hanno permesso di parlare delle sue paure, dei suoi vissuti, di quello che provava e sentiva, così come il silenzio in cui Franco mi ha insegnato a stare: non mi sono mai sentita più vicina ad una persona.
Il mio intervento era stato proposto dal medico VIDAS che stava seguendo la signora Silvia, un’anziana signora del sud molto energica, sulla quale era apparsa senza alcun preavviso l’ombra della morte. L’intervento psicologico era stato pensato per la figlia Laura, perché potesse avere un suo spazio dove aprirsi e trovare un sostegno durante il difficile accompagnamento della mamma. Io e Laura ci siamo avvicinate molto gradualmente, incontro dopo incontro. Nella stanza vicina a quella di sua mamma, dove di solito Silvia dormiva o chiacchierava con la vicina, Laura ha potuto dare voce alle sue paure, al suo dolore. Raccontare i propri pensieri più intimi, sentirsi meno sola le ha permesso di alleggerirsi per trovare nuovi sorrisi da regalare a sua mamma, affinché l’ultimo tratto di strada fosse il più lieve possibile.
L’esperienza della perdita, quando non viene negata e fuggita, può essere una grande occasione di risveglio e trasformazione e, mentre molto si dice sul dolore del lutto, poco si racconta sulla sua valenza trasformativa. Per chi ha il privilegio di accompagnare chi rimane vivo dopo la perdita di una persona cara, è invece un’esperienza frequente. Tante sono le trasformazioni che avvengono: spesso si vuole “fare pulizia” dentro e fuori di noi, cambia il peso che viene dato alle cose e alle relazioni, si scopre che apprezzare la solitudine è bello quanto apprezzare la compagnia, si decide di realizzare un sogno rimasto nel cassetto e si scoprono in noi risorse inaspettate.
L’essere umano sa come attraversare il dolore e farne tesoro. A patto, naturalmente, che la comprensibile rabbia e il senso di ingiustizia vengano accolti senza giudizio e poi lasciati andare e che il dolore trovi spazio e legittimità e possa essere vissuto e condiviso, per tutto il tempo necessario.
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