Pazienti che ci colpiscono, che con poche parole ci mettono con le spalle al muro, che ci fanno sentire come stanno loro. E allora la comunicazione è vera, il resto non conta e rimane un segno indelebile nell’anima. Monica ci racconta di quando è stata messa al muro.
Che fatica questo racconto, vissuto, pensato e ripensato, raccontato e non so perché non ancora elaborato.
Sono passati più due anni, un giorno come un altro, un giorno che non è mai come un altro quando varchi le porte di casa Vidas.Il mio turno di volontaria volge al termine quando una OSS, per quanto mi sforzi non riesco a darle un nome e un volto, mi ferma e mi dice: “Sono in ritardo per il briefing per favore occupati di questo paziente, il signor C., è appena arrivato, è molto agitato, non sta calmo, non capisce nulla. Portalo un po’ in giro”.
Il signor C. è seduto su una sedia a rotelle, è magro, terribilmente magro, cachettico come ho imparato qui.
Mi accuccio davanti a lui, lo guardo, mi presento anche se mi è stato detto che non è in grado di capire. Inizio a spingere la carrozzina, lato A, lato B, avanti e indietro… Il signor C. improvvisamente cerca di strapparsi il catetere, io gli prendo la mano e gli chiedo di non farlo. Smette e sputa a terra catarro. Dentro un moto di ribrezzo misto al senso di colpa per quanto ho appena provato. Cerca nuovamente di strapparsi il catetere e io nuovamente mi accuccio, gli prendo la mano e lo prego di smettere. Riprova ancora e ancora e sputa nuovamente e io nuovamente prendo la sua mano, lo guardo negli occhi e gli dico “C. so che è difficile ma così si farà del male, deve avere pazienza!” Lui ricambia il mio sguardo, occhi negli occhi e mi dice “Lei non sa neanche cosa significhi avere pazienza”. Mi ha ghiacciata con le sue parole pronunciate con un filo di fiato, parole che esprimevano una tale sofferenza fisica e dell’anima. Quell’anima così viva e lucida in un corpo quasi morto.“Ha ragione… io non so neanche cosa significhi avere pazienza però se me lo permette vorrei sedermi vicino a lei e accarezzarle la mano”. C. mi ha guardata ed ha annuito. Gli ho accarezzato la mano e il braccio per tanto tempo. Sentivo le sue ossa sotto le mie dita, avanti e indietro. Non volevo smettere, mi sembrava di abbondonarlo e di essere a mia volta abbandonata. Ho perso la cognizione del tempo…
Mi sono poi accomiatata da lui, a modo mio gli ho detto addio sapendo che non lo avrei rivisto una seconda volta.
La settimana successiva ho preso il mio foglio delle consegne, il suo nome non era legato ad alcun fiore. Quei venti fiori fragili e delicati che celano vite che hanno amato, riso, pianto; persone che sono state figli, sorelle, amici, genitori come lo siamo noi.
Lui non c’era ma io lo ricordo e lo ricordo ancora. Perché proprio lui, proprio C.?