di Emanuela Lucchi
Quando, a settembre 1994, ho iniziato il corso che mi avrebbe diplomato come infermiera, la nostra preside ci accolse in aula spiegandoci come la professione che avremmo svolto era passata dall’essere fondata sul Sapere e Saper Fare per integrare poi il Saper Essere e approdare, ancora dopo, al Saper Divenire.
A 25 anni dal diploma, posso dire di aderire bene al modello ma, nell’assistenza ai malati inguaribili, ho imparato a dotarmi di un’altra capacità: il Saper Stare. Come si apprende quest’arte, così innaturale in una professione sanitaria?
Anzitutto nel corpo e nella prossemica, con la capacità di farsi prossimi, senza cadere nella tentazione del falso perbenismo del rispetto (che è autodifesa), e chiedendo permesso, in senso fisico e figurato, nel varcare la soglia di questa distanza e aprirsi all’esercizio di tutti i sensi: guardare, ascoltare, toccare – per accogliere, e custodire, il dolore dell’altro.
Si impara sostando, ovvero: ci si ferma e si sospende il giudizio, lasciando all’altro di manifestarsi nel suo essere e nella sua fragilità. In ospedale sembra più facile, paradossalmente, mentre a casa tutto racconta, il quartiere, il tipo di casa, l’arredamento, le foto, gli oggetti, le persone presenti, e, prima dell’incontro, si arriva preparati, pieni di informazioni. Disporsi alla “presa in carico” o, come prediligo, “presa in cura”, però, significa disporsi a lasciarsi stupire dall’essere unico e inimitabile che è la persona che si avvicina.
Ascoltare in cure palliative (ma non solo) significa sviluppare la capacità di accogliere le parole inaudibili dell’altro, lasciare che vengano pronunciate, avere il coraggio di lasciarsene attraversare. Come una lama che ferisce senza lasciare il segno. È coltivare l’arte della meraviglia: accogliere le parole come se fossero ‘nude’ (s-velate), e lasciarle risuonare in noi. Allora so–stare può diventare parola: pronunciata, affidata, restituita, regalata. A patto di essere stati attraversati, e trasformati, dalle parole udite. Tutto questo può accadere solo in una relazione di verità.
Se è vero che, come si dice, per lavorare in cure palliative bisogna essere “arroganti e presuntuosi” (nel senso buono di pensarsi capaci di stare di fronte alla morte di un’altra persona), è essenziale, allo stesso modo, riconoscere la propria piccolezza di fronte all’enormità dell’evento che accade nella storia dell’altro.
Così:
Morire è adesso,
un momento qualunque,
questo momento.
Un palombaro
con la testa sul cuscino
mi fai la cronaca
da sott’acqua.
«Difficile.
Adesso.
Abbandonarsi».
Vorrei essere l’acqua
in cui tu nuoti.
(Chandra Candiani)