David Maria Turoldo (1916 – 1992) è stato poeta, ma anche filosofo, teologo e scrittore di saggi e altre importanti opere letterarie. Nel suo unico romanzo, dal titolo “La morte dell’ultimo teologo”, ci spiega il senso della vita e della morte con la grazia e lo stupore che solo un grande poeta possiede. Una riflessione sulla morte come valore che legittima la vita e ci aiuta a comprendere il significato più profondo del vivere e del morire.
La storia narra di un’isola in cui i suoi abitanti vengono privati dalla paura suprema e ultima: la morte. Per dirla citando le parole di Jorge Luis Borges, la morte non è più “un’usanza che tutti, prima o poi, dobbiamo rispettare”.
È un processo lento. Inizialmente l’età media si innalza e molte malattie scompaiono. Con il passare dei mesi, però, la gente smette effettivamente di morire. L’ultimo ad ammalarsi e morire è un ragazzino di dieci anni. La sua morte rappresenta un momento di tristezza collettiva, espressa dal sentimento di fallimento dell’uomo e della scienza. È l’ultimo attimo di finitezza, avvertito in tutta la sua tragicità. L’innalzamento dell’età, però, determina un abbassamento del tasso di natività, che estinguerà del tutto la presenza di neonati e bambini. L’isola, luogo in cui si realizza l’elevazione dell’uomo a divinità, diventa la terra della desolazione, in cui abitanti stanchi si osservano l’un l’altro, privati del gusto della novità.
Ad estinguersi, però, sono anche elementi peculiari all’uomo. Si perde il gusto di incontrare un amico, di conservare un amore, ma soprattutto svanisce la paura, ovvero il sentimento che induce l’uomo a prendersi cura dell’altro, ad accompagnarlo nel dolore. “Tanto non si muore”, “è il solito dolore”, “niente di grave”, sono le risposte che gli stanchi abitanti si rivolgono l’un l’altro.
Ma una cosa aveva prosternato l’isola nella più nera delle tristezze. L’aveva velata di lutto, come se di morte e non di vita, appunto si fosse trattato (…). Era precisamente l’abbandono di chi soffriva, la non-curanza dell’amico quando tu ti fossi trovato nel dolore o in qualche pena; l’oblio in cui ti lasciavano figli e sposa (…). E anche se la pena fosse stata insopportabile e il dolore lancinante, e il bisogno di conforto ancora più lancinante del dolore, era sempre la stessa convinzione che raggelava perfino la persona più cara. “Tanto non succede niente” (…). Come si può credere a qualcosa: a un dolore, a una pena, a una gioia anche, quando non succede niente, quando non c’è la morte: o almeno la minaccia di morte.
La sicurezza della vita stimola gli uomini a pregare per l’incertezza della morte. Gruppi numerosi si riuniscono per supplicare Dio, per implorare la restaurazione della fine naturale. Vogliono nuovamente attendere, riscoprirsi nell’inquietudine, ritrovarsi nell’incerto. Padre Turoldo descrive con maestria il desiderio di fine e l’attesa di una malattia fatale. Quando ciò accade, un’esplosione di gioia invade l’isola. L’uomo è tornato a morire, l’uomo è tornato uomo.
L’invenzione narrativa di Turoldo non è tesa a scagionare la morte o a renderla meno indigesta se paragonata alla condanna di una vita eterna. La sua riflessione è utile per cogliere il seme di speranza che caratterizza il morire. La fine è pensata non come momento che annulla, ma come desiderio di scoperta, passione per il mistero, richiamo d’amore, monito di ricordo, dolore che umanizza.
La riflessione ci aiuta a considerare la morte come valore che legittima la vita, ma anche come fonte di amore e carità che si realizzano in virtù della nostra temporaneità.
In questa prospettiva, “l’uomo che finisce” vive lo stupore della sua esistenza. Dall’incontro con l’altra prova ad assorbire quanta più bellezza possibile, farla propria, tenerla nel proprio cuore a difesa del dolore e della paura che accompagnano l’incedere dell’uomo. È la violenza inaudita della morte a dotare la vita della dolcezza e della grazia necessarie a rendere il nostro cammino esperienza e non passaggio.
Concludiamo con alcuni versi dell’autore, tratti dalla poesia “Ti sento, Verbo”. È la riflessione poetica di un uomo che ha dedicato la propria vita alla contemplazione e alla spiritualità, ma può esser utile a tutti coloro che ritrovano nella memoria la traccia necessaria per individuare il senso che giustifica.
Non è tutto un vivere e insieme
un morire? Ciò che più conta
non è questo, non è questo:
conta solo che siamo eterni,
che dureremo, che sopravviveremo…
Non so come, non so dove, ma tutto
perdurerà: di vita in vita
e ancora da morte a vita
come onde sulle balze
di un fiume senza fine.
Morte necessaria come la vita,
morte come interstizio
tra le vocali e le consonanti del Verbo,
morte, impulso a sempre nuove forme.