Se la sera potessimo ascoltare le voci del mondo sentiremmo, in tutte le lingue, adulti che raccontano e bambini che dicono «ancora».
Narrazioni diverse che pur si somigliano, perché parlano di noi, della nostra vita, di fatti che accomunano, di sentimenti universali, di chi siamo e come vorremmo essere.
Tra l’adulto che parla, spesso un nonno o una nonna, e chi ascolta, i nipotini, esiste un divario di età e di esperienza. Eppure li unisce un’intimità che annulla la distanza. Poche relazioni saranno più profonde e più vere. Le vicende narrate sono di solito lontane nel tempo e nello spazio, come evoca l’attacco delle fiabe: «C’era una volta…»: dove, quando, perché? Ovunque, sempre e mai è la risposta, che il “come” renderà unica.
Il racconto trasmette da una generazione all’altra un patrimonio dell’umanità: avvenimenti accaduti o che avrebbero potuto accadere, fatti reali e irreali che il pàthos dell’evocazione rende verosimili e attuali Il suono della voce, attraverso le accelerazioni, le pause, il variare dei toni, rapisce, porta altrove, lontano dalla casa, dal cortile, dal quartiere facendoci conoscere persone che non avremmo mai incontrato, situazioni in cui non ci siamo mai trovati ma non così estranee come potrebbe sembrare perché le emozioni che suscitano erano già dentro di noi, pronte a essere attivate.
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La curiosità, la paura, la gioia e il dolore, l’odio e l’amore ci abitano da sempre e aspettano soltanto parole per dirsi. Parole condivise perché insieme ci si comprende meglio. Le frasi del racconto non sono, come nei libri, fissate per sempre ma vengono tagliate a misura di “quel bambino” perché le emozioni che suscitano, positive e negative, siano adeguate alla sua età, idonee al suo temperamento, capaci di farlo crescere e renderlo migliore.
Le situazioni evocate dalle fiabe — il bosco, il castello, l’orco, la strega, gli animali parlanti, gli incantesimi — sono così inconsuete che richiedono di creare, in senso artistico, le forme e i colori da usare. Se il bambino chiede «ancora» è perché conoscere lo svolgimento dei fatti lo rassicura, gli consente di prevedere le conseguenze, di controllare le emozioni, di sentirsi padrone del suo destino. Nella vita di ogni giorno i bambini usano per lo più verbi al presente o al passato prossimo: «Oggi viene il mio amico», «Ieri ho fatto il bagno». Ma per raccontare una fiaba occorrono tempi verbali complessi come il condizionale semplice o composto, il passato remoto, il futuro anteriore, tempi che aprono la mente ed evocano, al di là dei bisogni (ho fame, ho sonno, ho freddo) la sfera dei desideri (avrei voluto, domandai, sarebbe stato). Termini che, al di là della necessità, aprono prospettive di libertà.
Quando Maria Montessori afferma che la richiesta più importante che il bambino rivolge all’adulto è «aiutami a fare da solo» si riferisce all’autonomia necessaria per diventare adulti liberi e responsabili. Un processo cognitivo che l’insegnante montessoriano promuove in una situazione protetta, guidata da un materiale didattico adeguato, sostenuto da una vigilanza accorta e discreta. Ma quando i più piccoli entrano nel mondo incantato delle fiabe, seppur rassicurati dall’intimità della casa, della famiglia, della classe, si ritrovano immersi in un mondo minaccioso, irto di insidie e di pericoli, ove neppure i genitori bastano a proteggerli. Di solito il racconto inizia con il protagonista che lascia la casa e, chiusa la porta alle spalle, procede verso il futuro. Il bambino che ascolta s’immedesima subito con lui o con lei e, di volta in volta, entra nei panni di Cappuccetto Rosso, Biancaneve, Pollicino.
Il suo coinvolgimento è tale che, dimentico del mondo circostante, resta a bocca aperta, salta, libero d’immaginare alternative, sbagliare e riprovare prima di raggiungere il conforto del lieto fine. Il bambino sa che, per quanto le prove siano impervie, l’eroe ovvero se stesso ne uscirà vincitore. Lo svolgimento narrativo segue uno schema che mette ordine nel caos della fantasia, organizza il ragionamento, scioglie le contraddizioni, consente di vivere tante esperienze restando se stessi.
Le storie modulano il tempo, avvicinano le generazioni, tengono vivo il passato, prospettano futuro.
Lo schema di fondo è sempre lo stesso, come mostra la prima favola che di solito i bambini incontrano, Cappuccetto Rosso. Vi è una situazione iniziale: la bambina, vestita di rosso, simbolo dell’eccitazione che prova per la sfida che sta affrontando, saluta la mamma per recarsi dalla nonna attraversando il bosco. Subentra subito una complicazione: l’incontro col lupo. L’azione trasformatrice è rappresentata dal lupo che, dopo aver divorato la nonna e fingendosi lei, si accinge a inghiottire la nipotina. Nel finale, il cacciatore che spara al lupo e gli estrae dal pancione la bambina, attua un ribaltamento rispetto alla situazione iniziale: il mondo, benché rischioso, è un bel luogo per vivere e crescere.
Identificandosi con Cappuccetto Rosso, facendo propria la sua storia ride, si commuove, sospira … e cresce.
I nostri bambini sono abituati dai video giochi ad affrontare una sfida tecnologica dove il percorso e le alternative sono prefissati dagli ideatori, la scelta giusta è una sola e si tratta di intuirla e di agire rapidamente. Nelle fiabe invece la lentezza del racconto crea una sospensione che dà tempo al pensiero sua storia, il piccolo ascoltatore dà forma alla paura, la mette in situazione rendendola più controllabile rispetto al timore istintuale, vago e diffuso. Il finale è inverosimile ma conforme al senso di onnipotenza della mente infantile e alla convinzione che in ogni caso esistono adulti buoni che proteggono i bambini.
In questi difficili anni, l’ultima generazione sta vivendo in un clima di emergenza provocato dalla pandemia prima, dalla guerra poi. Alcuni bambini hanno paura di uscire perché fuori ci si ammala, altri hanno paura di restare in casa perché una bomba potrebbe colpire la loro abitazione, un missile centrare il loro lettino. In questi frangenti le fiabe classiche o moderne possono svolgere un’importante funzione di riequilibrio e rassicurazione. Inoltre, dando la parola al bambino, si può trasformarlo da ascoltatore a narratore, un rovesciamento di ruolo che stimola la creatività e rivela il potere performativo dell’immaginazione, la capacità della fantasia di evocare un mondo migliore.
In questo senso Gianni Rodari ci invita a superare la consuetudine proponendo, oltre a Cappuccetto rosso, storie di Cappuccetti gialli, verdi o blù. Da un’inchiesta svolta qualche anno fa, risulta che la favola più amata dai bambini è il Brutto anatroccolo, brutto perché più grosso, scuro e goffo degli altri. Sentendosi diverso e non accettato dai coetanei, l’infelice decide di fuggire. Una volta cresciuto, si rivelerà però uno splendido cigno. La preferenza espressa dai piccoli lettori conferma la capacità delle favole di giungere al cuore delle questioni: in questo caso di affrontare la difficile costruzione dell’identità rafforzando l’autostima del bambino, aiutandolo ad accettare le differenze, convincendolo che essere diversi può voler dire essere speciali.
Secondo Italo Calvino, le vicende dell’eroe sono ordinatrici perché, ribaltando l’elemento irrazionale, che provoca scompiglio e disordine, apportando valori profondi quali l’armonia, la sincerità, la solidarietà. Rispetto a una concezione assoluta del destino, mostrano la possibilità di sbagliare e rimediare, di perdersi e ritrovarsi. L’etica delle fiabe è semplice e sempre valida: qualunque cosa accada, alla fine il Bene vince e il Male soccombe. Quanto all’adulto che narra, la consonanza col piccolo che segue fiducioso il filo delle sue parole lo aiuta a ritrovare i suoi residui d’infanzia, a riprovare la meraviglia della prima volta.
Per ogni bambino il mondo è nuovo di zecca e guardarlo con i suoi occhi ci dà la possibilità di sbarazzarci dei pensieri pigri, dei pregiudizi stanchi.
I bambini non ci consentono d’invecchiare! Con la fine dell’infanzia, le narrazioni cambiano: «Lascia che ti racconti quando…». L’adulto che chiede ascolto vorrebbe lasciare memoria di sé, nella convinzione che non è tanto la vita reale che conta, quanto il racconto che ne facciamo. Gli eventi che evoca, spesso eroicizzati dalla fantasia, dicono ai ragazzi da dove vengono, chi sono e come possono procedere verso un futuro possibile e desiderabile. Come accade nelle Mille e una notte Sharazade, la fanciulla che, condannata a morte dal Sultano, si salva raccontando una storia infinita, sino a quando risuoneranno voci di bambini che chiedono “ancora” la Terra continuerà a girare e l’umanità a narrare.
Articolo di Silvia Vegetti Finzi
già pubblicato su L’osservatore Romano
in data 24-05-2022