Inserisco l’ultima visita e vado a casa. Di sopra è tutto tranquillo. Le terapie dei pazienti che stanno peggio sono impostate e gli altri sono a posto. A casa ci sono Giovanni e i bambini che non stanno tanto bene: se mi sbrigo forse riusciamo a mangiare insieme, almeno oggi che è domenica.
Squilla il telefono. “Sì?”. “Sono Elena…”, caso mai ci fossero dubbi. È l’ultima infermiera arrivata in ordine di tempo, la più giovane di età e ha un accento bergamasco che più di così non si può.
“Giada, non puoi ancora andare a casa”, il tono a metà tra un ordine e una preghiera. “Cosa succede?” chiedo io.
“Il Rossi, quello della camera Orchidea, oggi è sveglio e continua a fare domande. Ha detto alla Fatme che secondo lui da qui si esce solo dopo morti. Per favore, andiamo insieme a parlargli….”.
“Cinque minuti e salgo”.
Elena mi aspetta.
“Mangiamo o andiamo subito?” mi chiede. “Mangiamo”.
So che lui sta aspettando, ma l’incontro promette di essere impegnativo e io sento che dopo una mattina a visitare malati e parlare con i parenti non posso affrontare il Rossi a stomaco vuoto.
A pancia piena entriamo da lui.
“Buongiorno, mi hanno detto che voleva parlarmi” esordisco.
“Oh buongiorno dottoressa” mi fa lui, bianco come le sue lenzuola con due ciocche di capelli ai lati del viso tipo inventore pazzo “grazie di essere venuta. Vede… è che ho una gran paura. Mi sembra che non sto proprio migliorando e ho bisogno di capire. Da questo posto posso sperare di uscire con le mie gambe o devo aspettarmi di uscire solo dopo morto?”. La domanda è diretta.
Non ricordo che all’università – nelle sette-otto ore dedicate all’insegnamento della psicologia in sei anni di corso – qualcuno mi abbia detto che avrei potuto trovarmi in questa situazione.
Ricordo invece il mio professore di anatomia patologica che, quando gli comunicai che avrei abbandonato l’internato in quella disciplina per dedicarmi all’oncologia, mi guardò con occhi sbarrati e mi disse : “Ma sei sicura di voler vedere tutta quella gente che sta male e piange?”.
“Signor Rossi” rilancio io “ma all’ospedale, prima di mandarla qui, che cosa le hanno detto?”.
“Che questo era un posto molto specializzato!”. Specializzati siamo specializzati. Tutto sta a vedere in cosa. “Che mi avrebbero rimesso in piedi qui da voi… Ma le mie gambe sono sempre peggio… Io non mi muovo dal letto…Non riesco a mangiare…Dottoressa, ma ne vengo fuori o no?”.
“Luigi, lei lo sa che malattia ha, vero?”.
“Ma veramente, dottoressa, io avevo due tumorini piccoli, uno all’intestino e uno al fegato. Il dottore che mi ha operato mi ha detto che mi hanno tolto tutto. Dopo quindici giorni mi ha detto: ‘Vai, Luigi, che sei guarito’, ma io continuo a stare male”
“Vede, Luigi, in verità l’intervento ha tolto una parte della malattia (non è vero, l’intervento è stato solo esplorativo. Nel linguaggio comune è: l’hanno aperto e l’hanno richiuso, ma come faccio a dirglierlo?), ma nella sua pancia sono rimaste un bel po’ di cellule malate che le provocano questo enorme gonfiore alle gambe, al pene e allo scroto. E in questo momento anche la chemioterapia o la radioterapia non si possono fare perché il suo organismo è troppo debilitato e questi trattamenti sarebbero troppo tossici. Insieme alle cellule malate, uccideremmo anche le cellule sane: è chiaro che fermeremmo la sua malattia ma uccideremmo anche lei”.
“Ah! Ma quindi non sono guarito”. Mi fissa. I suoi occhi sono sbarrati. Uno sguardo indescrivibile. Non devo abbassare lo sguardo, penso. Non devo fargli vedere che ho paura anch’io, anche se ce l’ho. Ne ho un casino.
“Ma perché il dottore…non me l’ha detto?”.
“Non lo so. Lei cosa pensa?”.
“Lo so il perché, lo capisco.. Va bene ma allora adesso io posso solo aspettare di morire? Dottoressa, ho 54 anni..” la voce si rompe in un singhiozzo.
“Lo so” gli dico. Tace e mi fissa, gli occhi enormi nel volto scavato.
“Tra vent’anni quindi ..” forse è una mossa involontaria del mio viso che gli fa correggere la domanda “tra un anno quindi sarò ancora in questo letto?”.
Intanto che cerco le parole per non uccidere ogni sua speranza, mi viene in aiuto lui: “O magari, dottoressa, ne ho per due o tre mesi al massimo…”.
Non è tanto una domanda. Ha capito tutto da solo il Signor Luigi Rossi della camera Orchidea, con una diagnosi di tumore del colon con metastasi epatiche e peritoneali che risale a non più di due mesi fa, passato da sano a terminale in un lampo, a cui nessuno ha osato dire la verità per la sua storia di “depressione” e “disturbi del comportamento”.
Non mi resta che seguirlo nella sua scoperta della verità.
“Sì Signor Rossi: mi sa che è più ragionevole se parliamo di mesi”.
“Sì, grazie. Io la ringrazio dottoressa. Lei ha cercato di addolcire la verità, ma me l’ha detta. Grazie”.
Mi manda dei baci con la mano a rafforzare il suo grazie.
“Ma se tanto non posso guarire, non si può far qualcosa per farmi morire subito?”. Eccoci.
“No. Non si può. La legge non ce lo consente. E comunque non credo che mi sentirei di farlo. Però non sentirà dolore: per quello gli strumenti ci sono. E se vuole possiamo aiutarla a dormire tutto il tempo che vuole”.
“No, mi faccia stare sveglio ora. Poi ci penseremo. Grazie, grazie”. Altri baci.
Poi si ricorda di una cosa: “Però dottoressa le chiedo questo. Sono come un bambino, impotente, bisognoso di tutto. Siate per me come delle madri. Curatemi come una madre. Per favore.”.
Non capisco fino in fondo che cosa intenda. Glielo spiego però che noi abbiamo 20 malati ricoverati e tutti bisognosi come lui. Questo pensiero sembra illuminarlo. Vuole qualche informazione in più: sono tutti gravi come lui gli altri 19? Camminano o sono a letto? Ci sono altri ricoverati con un tumore dell’intestino? Sembra un filo più sereno alla fine del colloquio. Stiamo per uscire e un pensiero improvviso.
Si rivolge ad Elena ora: “La dottoressa può andare ora, ma tu -ti prego- resta con me. Non lasciarmi da solo. Non lasciatemi solo ora che so”.
Elena non ha dubbi: “Certo che sto qui”. Anche lei ha finito il turno. Non ha bambini che l’aspettano, ma una partita di pallone di cui ha continuato a parlarci perché non vede l’ora di entrare in campo. Esco sorridendo ad Elena e a Luigi.
Mi manda un bacio. E aggiunge: “Torni a trovarmi. L’aspetto”.