Non è facile introdurre questo racconto, recapitatomi da Marino, nostro storico volontario, proprio alla vigilia del Giorno della Memoria. Ricordo quando, bambina, andai a Dachau con i miei genitori. Ero impreparata, se mai si può essere preparati, non volevo toccare nulla per paura d’essere risucchiata dal dolore e dall’orrore. Da adulta, consapevole ma sempre impreparata, sono andata ad Auschwitz. Lì dolore e orrore sono ovunque per ciò che un essere umano può infliggere a un altro essere umano, anche nell’aria. Ricordo con estrema commozione un gruppo di giovani con la kippà in testa che recitano la preghiera per i defunti, il kaddish, davanti a ciò che resta dei forni crematori. La vita torna protagonista davanti a tutti coloro che sono morti.
Mi presento a casa di un malato, Carlo, di 85 anni. La moglie mi riceve come fossi un parente stretto, mi bacia e abbraccia. Sono lusingato e ammirato da tanta espansività.
Carlo invece è assai sospettoso, direi quasi ostile, il suo sguardo non lascia trapelare nulla di buono.L’ora successiva scorre in conversazione con la moglie. Carlo mi ascolta, ma non parla, fa solo cenni con la testa per acconsentire o negare. Tolgo il disturbo dopo un’ora e mezza, un po’ perplesso. Non sono stato capace di trovare uno spiraglio per fare breccia nel suo stato emozionale.
In una delle visite successive riesco a toccare una corda sensibile della sua personalità. Da quell’istante, il suo silenzio si trasforma in uno straziante racconto di vita trascorsa tra una famiglia e l’altra, sino alla tragedia della guerra e del campo di concentramento. Un numero tatuato sul braccio destro, indelebile, rivela la sua straziante esperienza. Si rivela dignitoso e insieme umile, per la semplice ragione che è vivo. I suoi racconti, nelle visite successive, sono reciprocamente importanti: lui si commuove e io l’accompagno nel suo pianto.
Alla fine di ogni visita accarezzo dolcemente la testa bianca di quell’uomo, grato di questa sua trasmissione di memoria, ormai a brandelli. È stato offeso, umiliato, degradato come essere umano.
Durante le ore trascorse insieme, tra un racconto e l’altro, troviamo il tempo di giocare a carte. Lui bara con stupenda ingenuità e io non sono da meno.
La moglie mi coccola come fossi un figlio, ogni tanto mi chiede se desidero qualcosa, mentre mi parla mi posa una mano sulla spalla. Un giorno mi fa vedere la medaglia al valore che Carlo ha ricevuto dalle mani del Presidente della Repubblica. Resto ammutolito, tengo in mano un pezzo della sua vita, mi par di sentire le urla e avvertire il peso degli strazi patiti in quegli anni.
Resto affascinato dalle sue parole, lo tratto con immenso rispetto. Suggerisco alla moglie di incorniciare la medaglia per appenderla al muro. Me ne occupo io, aggiungo. Dopo alcuni giorni torno con la medaglia incorniciata, chiusa in una scatola di scarpe. Quando gliela mostro, Carlo piange dalla commozione e io con lui.
Gli sono grato per averlo avuto come amico nei suoi ultimi mesi di vita. La medaglia è appesa nel soggiorno della casa di suo figlio con tutto l’onore che merita.
Oggi, dopo dieci anni, mi sono recato nei luoghi della sua sofferenza a Dachau, posando un sasso sulla fossa comune del campo, come avevo promesso. Ho vissuto la sofferenza di un uomo.