“Il cantiere di Casa Vidas? È stato aperto nel 2004. Era un momento caratterizzato da un’attenzione, anche politica, inedita verso le cure palliative, andata crescendo da quando, nel ’97, avevamo avuto il primo rapporto di accreditamento con il Servizio Sanitario Nazionale. Nient’affatto comparabile con quello che sarebbe diventato ed è oggi, era consistito in un contributo delle allora USL del territorio milanese, a seguito di una gara d’appalto rivolta a organizzazioni private che offrivano assistenza a domicilio. Non superava, in valore, il 5% del bilancio annuale”. Giorgio Trojsi, direttore generale VIDAS, c’era. Era già in VIDAS negli anni in cui “l’attività che svolgeva non aveva nome di cure palliative e, pur riconosciuta come meritoria, sembrava lontana dall’essere considerata diritto alla cura per una certa categoria di malati”.
Già allora, all’interno dell’organizzazione, con una storia ventennale di assistenza, la consapevolezza che, per alcuni, fossero necessari ricoveri in degenza era ben presente. Molti di loro erano in condizioni tali da non poter essere assistiti a casa ed erano state avviate convenzioni con cliniche private per supplire alla mancanza di una struttura propria. Giovanna Cavazzoni, fondatrice e allora presidente, ne ha fatto un sogno e, da visionaria molto pragmatica, un obiettivo.
“L’esigenza di avere un hospice è nata lavorando nelle case e in una città come Milano che ha manifestato, prima di centri minori, condizioni che sono campanelli di allerta: povertà, solitudine, famiglie monocomponenti, agglomerati abitativi dove si concentrano centinaia di persone, spesso nell’estraneità reciproca. Ci scontravamo con estreme difficoltà, talvolta, nel garantire buona assistenza domiciliare”. C’era anche Barbara Rizzi, medico palliativista e – oggi – direttrice scientifica VIDAS, che ai tempi lavorava come medico del domicilio
Nel volgere di pochi anni, la cornice in cui ci si muoveva si modifica profondamente, al punto da rendere possibile avviare un progetto residenziale. Con la legge 39 del 1999, parte del piano sanitario nazionale 1998-2000, la Ministra della Sanità Rosy Bindi aveva deciso di finanziare la costruzione di hospice e, recependo il mandato, la Regione Lombardia aveva definito, con un decreto del 2003, caratteristiche e obblighi per chi decideva di costruire.
“La decisione di non avvalerci dei fondi pubblici e di lanciare una campagna di raccolta fondi risale al 2002, a vent’anni dalla nascita di VIDAS, anno in cui la giunta comunale concesse in usufrutto per 45 anni il terreno su cui sorgerà Casa Vidas. Fu un successo. L’hospice è stato inaugurato nel 2006, venne costituita la prima équipe di degenza e trasferita qui la direzione sociosanitaria”. Ancora Trojsi, che ammette di essere stato scettico riguardo alla possibilità di raccogliere abbastanza risorse per coprire i costi di costruzione e mantenere una struttura complessa.
Chiosa la dottoressa Rizzi: “Per Giovanna Cavazzoni il sogno di integrare domicilio e degenza, suo dalla prima ora, non era completo senza il corollario pratico dell’indipendenza. Ha voluto che VIDAS non ricevesse alcun finanziamento pubblico. La posta in gioco era di preservare il nostro modello, senza subire alcun condizionamento. Sono convinta che anche in questo risieda il segreto della nostra evoluzione. Che discende direttamente da un modello di cura in cui il volontario è parte integrante dell’équipe. Questa compresenza di professionisti e volontari, che lavorano all’unisono, da subito sinergici, è, a mio giudizio, il motore della trasformazione evolutiva di VIDAS. Ci consente, tra gli altri aspetti, di essere sempre all’avanguardia, perché produce una capacità straordinaria di ascoltare e rispondere ai pazienti senza dare retta alle mode, alle correnti, alla demagogia, alla fronda politica. L’ascolto attivo ha segnato ogni tappa della nostra storia”.
Pur in assenza di finanziamenti pubblici, VIDAS era tenuta a rispettare i parametri del decreto, pena la mancata autorizzazione al funzionamento – ovvero alla possibilità di erogare assistenza. È stato fissato in questo modo il numero delle camere (20, come numero massimo previsto), la loro ampiezza, la presenza del bagno assistito in camera, la possibilità di ospitare un familiare, l’obbligo di percorsi distinti per la biancheria sporca e quella pulita e anche le caratteristiche delle camere mortuarie. “Naturalmente”, spiega Trojsi, “entro questi vincoli, abbiamo potuto apportare tanti elementi di innovazione, frutto di competenza e di un’intuizione suffragata da tanti anni di esperienza. Cito solo i due più evidenti. Il primo, in hospice si può circolare in tutti gli spazi, camere, corridoi, spazi comuni, terrazzi, con i letti, così che i pazienti immobilizzati hanno sempre la possibilità di uscire dalla camera e vengono accolti con il letto già all’ingresso della struttura, senza spostamenti con la barella dell’autoambulanza. Il secondo, abbiamo collocato armadi all’esterno delle stanze dove riporre la biancheria pulita, evitando così di entrare nelle stanze e disturbare pazienti (e parenti) all’interno. In Casa Sollievo Bimbi questo aspetto è stato ottimizzato perché gli armadi a muro comunicano con l’interno dei mini appartamenti e rendono possibile scambiare biancheria sporca e pulita. Costruire da zero ha permesso di realizzare terrazzi sia al primo sia al secondo piano e di dotarsi di ampi spazi comuni che invitano allo scambio e alla relazione”.
Dal punto di vista architettonico, l’hospice si estende su due ali con un’area centrale di coordinamento e presidio medico e infermieristico. Nell’autunno 2006 fu concesso un primo accreditamento di 12 posti letto, diventati negli anni 16, sui 20 totali. Quattro sono rimasti sempre in carico a VIDAS che ha potuto decidere, liberamente, di accogliere persone malate in stato di bisogno, anche economico, fuori regione, chiunque, per un motivo o l’altro, fosse nell’impossibilità di ricevere copertura dal servizio sanitario pubblico.
È Rizzi a spiegarci come sia stata costruita una forte integrazione tra domicilio e degenza, che, dal 2007, comprende anche il day hospice e l’erogazione di terapie ambulatoriali.
“L’hospice può essere casa nelle situazioni di maggior bisogno ma può anche dare risposte mirate ai pazienti che presentano una maggiore complessità dal punto di vista clinico-assistenziale. Ad esempio, si possono somministrare farmaci che al domicilio non sono disponibili o effettuare interventi più complessi come il posizionamento di un mini-midline ovvero un catetere venoso sotto guida ecografica nelle situazioni in cui è importante impostare una terapia endovenosa. L’hospice è anche un luogo nel quale viene garantito ai pazienti il monitoraggio specialistico continuativo e questo può essere essenziale in alcune fasi di malattia”.
Premesso questo, negli anni una parte dell’expertise dell’hospice è stata trasferita al domicilio, dove sono stati adottati via via terapie e presidi più sofisticati per dare risposte sempre più mirate e puntuali ai molteplici bisogni dei pazienti. In Casa Vidas negli anni è stato possibile offrire anche terapie complementari: “tra i medici VIDAS alcuni sono anche esperti di agopuntura e quindi in hospice è stata data ai pazienti che lo desideravano anche questa opportunità. È più facile in hospice, naturalmente, gestire questo tipo di terapia così come proporre terapie diversionali, musicoterapia e pet therapy, sempre molto apprezzate dai pazienti e dai loro famigliari contribuendo a riempire l’hospice di vita”.
Allo stesso modo, la fisioterapia, che è parte stabile della cura con operatori VIDAS all’interno delle équipe, fatta in hospice può venire offerta in una forma più continuativa rispetto a una frequenza domiciliare di norma più bassa (ma possibile).
L’hospice, inoltre, ha dotazioni che a casa potrebbe essere impossibile riprodurre. “Si pensi al bagno assistito che dà la possibilità di tornare a immergersi in una vasca, sostituendosi alla doccia o, anche, all’igiene fatta da altri a letto”, dettaglia Rizzi. “Per qualcuno tornare a fare il bagno, dopo essere stati lavati a pezzi per tanto tempo, è stato come toccare il cielo come un dito. Ci sono competenze di cura che possono essere erogate considerando le diverse figure professionali che è possibile far entrare in équipe: la terapista occupazionale, il logopedista e tutta l’area riabilitativa ha implementato la propria attività dopo l’apertura dell’hospice perché gli spazi consentono di effettuare alcune attività in forma ampia. Con i pazienti pediatrici, è entrata a far parte dell’équipe anche l’educatrice e, a breve, è previsto l’inserimento di una neuropsicomotricista dell’età evolutiva”.
I 15 anni di Casa Vidas hanno realizzato la contaminazione reciproca tra professionisti che operano nei diversi setting di erogazione delle cure palliative da parte di VIDAS. Nel caso di medici, ad esempio, l’organizzazione iniziale prevedeva una rotazione semestrale, sui due setting (hospice, domicilio), con compresenze trimestrali che garantissero la circolazione delle buone pratiche. Nei fatti, con maggior flessibilità, anche grazie a programmi di formazione integrati, si è sempre cercato di promuovere “uno scambio virtuoso tra équipe della degenza ed équipe del territorio. Chi lavora al domicilio”, spiega Rizzi [che non ha mai smesso di farlo, ndr] “può trovarsi a lavorare in condizioni talvolta non ideali ma ha il vantaggio di conoscere il paziente all’interno del proprio contesto di vita e avere così più elementi per costruire un piano di assistenza davvero personalizzato”.
Questa lunga ricognizione ci porta all’oggi. Abbiamo chiesto a Giada Lonati, medico (sia in hospice sia a domicilio) e direttrice sociosanitaria, come sta cambiando il concetto di hospice e come Casa Vidas si adegui a altri e più attuali bisogni. “Con tassi di invecchiamento e di povertà crescenti, un bisogno sociale in aumento, famiglie sempre più piccole, abbiamo bisogno di imparare a dare risposte, non solo alla malattia oncologica in fase evolutiva ma alla cronicità. Abbiamo bisogno di attrezzarci per offrire ricoveri di sollievo, perché spesso, come abbiamo riscontrato sempre di più, anche il caregiver è una persona fragile. La fragilità coesistente, del paziente e di chi se ne prende cura, chiede di riorganizzarci per tenere insieme le risposte ai bisogni sociali con quelle ai bisogni clinici”.
È uno dei mandati delle cure palliative. “Sono un paradigma della complessità, nate per offrire una presa in carico globale che include gli aspetti che, alla fine della vita, non sono mai meramente clinici ma sempre anche sociali, psicologici, spirituali. Una presa in carico sempre e solo d’équipe che prevede, accanto alle componenti psico-sociali, un ruolo fondamentale di quelle medica e infermieristica, nella gestione della multidimensionalità dei bisogni del paziente”.
Tanti auguri, Casa Vidas, cento di questi giorni.