Viveremorire. La seconda edizione del festival culturale, Incontro, porta un titolo audace ma non provocatorio perché la nostra intenzione è di toccare, non di scuotere – aprire e costruire lo spazio per suscitare un’emozione, dare origine a una riflessione, da sentire e pensare insieme, nella relazione con gli altri.
Come per il debutto, che lo scorso maggio celebrava i 40 anni di VIDAS, abbiamo scelto uomini e donne che esprimessero un pensiero forte attorno alla cura e alla sua etica, che implica rispetto e dedizione, ascolto e inclusione della differenza, silenzio e pazienza, assunzione di responsabilità nei confronti dei bisogni e dei desideri dell’altro. Perché viveremorire è un incontro, e il più importante, quello che mette a nudo la nostra fragilità e la nostra verità ultima, insopportabile se non nel legame che ci affratella e costruisce il noi.
Un’anteprima delle riflessioni che animeranno le due giornate della seconda edizione di INCONTRO. Cinque parole che sono altrettante costellazioni di senso, direzioni possibili, ispirazioni.
Indice
Gabriella Caramore, saggista e autrice radiofonica
Le coordinate entro le quali il nostro tempo si muove hanno come misura la fretta, l’urgenza, l’incapacità di sostare, di mettere dimora presso le cose, con le conseguenze che tutti possiamo constatare: la fatica nel far fronte alla massa di problemi che si ergono davanti a noi, una dose di superficialità che complica la vita delle persone invece di aiutare nella cura. Un atteggiamento “paziente” nei confronti degli esseri umani e dei nodi problematici da affrontare potrebbe essere di aiuto nella contingenza che viviamo, in cui il tempo di ciascuno – e quello delle società tutte – sembra divorare se stesso.
Occorre però uscire da un pregiudizio, radicato nei secoli e insediatosi nel nostro linguaggio: quello di considerare la ‘pazienza’ un atteggiamento remissivo, rinunciatario, debole, in definiva malinconico. Così è stata narrata, nei secoli, la disposizione ‘paziente’, a cominciare, fra gli altri simboli, da quel Christus patiens come è stato narrato nella tradizione cristiana, per finire con il chiamare ‘pazienti’ i malati che non solo patiscono nella carne e nello spirito, ma che sempre più hanno perso giurisdizione sulla cura della loro malattia affidandola completamente al sapere medico. Naturalmente, ‘pazienza’ significa anche questo. Ma deriva dal greco pathos, parola che è alla base sia del patimento che della passione: sì, anche della passione amorosa. Occorrerebbe allora articolare la ‘pazienza’ sia nel senso di una attenzione vigile al patire di chi soffre, volta però ad alleviare il male e non a considerarlo uno stato di necessità; sia nel senso di elaborare tenacemente una passione per tutto ciò che è vita. Paziente è la crescita del neonato, nella sua lenta conquista del mondo; paziente la parabola della vecchiaia, che si esercita nel lasciar andare; paziente il gioco degli amanti. Aver cura del vivente richiede una sapienza del tempo, che implica anche ‘pazienza’.
Daniele Cassioli, atleta paralimpico e formatore
Non ho mai considerato la cecità come un problema del mio corpo, l’ho visto un ostacolo a vivere la vita. Ho vissuto il senso di ingiustizia nei confronti di Dio, del destino, sono stato arrabbiato con le potenze del sovrannaturale per essere nato così, non col mio corpo. Lo sport, certo, mi ha aiutato a recuperare una relazione con il corpo e, anzi, a capire che, se lo esercitavo, superava il limite, raggiungeva livelli insperati – e questo mi ha fatto sentire bene, anche con gli altri. Ho 25 titoli mondiali, 27 titoli europei e ancora gareggio.
Ho sopperito alla mancanza della vista parlando col corpo: il contatto è un linguaggio, con meno filtri rispetto alla parola, più soggetto all’istinto. Ci sono persone che non si conoscono, non sanno cos’è l’incontro con l’altro. Io ho costruito la mia vita sull’empatia: abbassa la difficoltà di stare nella dipendenza dall’altro, inevitabile quando hai sempre bisogno di qualcuno che ti prenda il braccio e accompagni. Empatia è un po’ destrutturare i ruoli, riavvicina le persone –bastano un sorriso, una battuta, ci si predispone all’ascolto, ci si mette nei panni dell’altro
Collettivo artistico Lu Cafausu, progetto di Emilio Fantin, Luigi Negro, Giancarlo Norese, Cesare Pietroiusti
La Festa dei Vivi (che riflettono sulla morte), celebrata il 2 novembre di ogni anno a partire dal 2010, è un progetto artistico collettivo di Lu Cafausu (Emilio Fantin, Luigi Negro, Giancarlo Norese, Cesare Pietroiusti, Luigi Presicce), che propone di elaborare il pensiero della morte come trasformazione, soglia, necessario orizzonte di senso.
Quando abbiamo a che fare con la morte, si tratta sempre della morte degli ‘altri’: la contemporaneità sembra infatti aver perduto, dietro il sensazionalismo di notizie ogni giorno più catastrofiche, la profonda e intima consapevolezza di un destino ineluttabile e universale che ci rende tutti profondamente simili.
Non più solo commemorazione di chi ci ha lasciato o di ciò che abbiamo perduto, la Festa dei Vivi è un’occasione di incontro e dialogo con i morti, la creazione di un territorio comune dove, attraverso la pratica artistica, nuovo significato emerga proprio da ciò che normalmente consideriamo impossibile.
La Festa dei Vivi (che riflettono sulla morte) esplora una forma di coscienza della finitudine che parta dalla vita stessa e che ritorni ad essa, dando spazio al mistero, affermando e valorizzando il reale, e proiettando il nostro essere – che è fatto di vivere e morire – oltre la sfera dell’individuale.
Marco Aime, antropologo e docente all’università di Genova
Il cibo è senza dubbio il carburante necessario al nostro corpo per funzionare, ma se fosse solo così, come mai non mangiamo tutto ciò che è commestibile? Perché gli occidentali non mangiano insetti? Gli induisti rifiutano la carne bovina? Ebrei e musulmani non toccano quella suina? I buddhisti sono vegetariani? Ciascuno di loro ha motivazioni diverse e questo ci deve fare riflettere con il gusto alimentare collettivo sia costruito culturalmente attraverso la storia, l’ecologia, la religione.
Un cibo deve essere buono da pensare, oltre che da mangiare, deve soddisfare il nostro appetito fisico innanzitutto, ma anche quello simbolico. Non a caso abbiamo caricato il cibo, sebbene in modi diversi, di valori morali, etici, religiosi, conviviali…
Quando ci sediamo a tavola, lo facciamo per sfamarci, ma allo stesso tempo celebriamo, in qualche modo, un rito che, sebbene in forme diverse, ci trasforma in mangiatori culturali.
Enzo Bianchi, monaco e saggista, fondatore della Comunità di Bose
Il silenzio è il linguaggio della profondità, il linguaggio dell’amore, di presenza all’altro.
Purtroppo oggi il silenzio è raro, è la cosa che più manca all’uomo moderno, assordato dai rumori, bombardato dai messaggi sonori e visivi, derubato della sua interiorità. Quando diminuisce il prestigio del linguaggio, aumenta quello del silenzio. E si ricordi che il silenzio non è dato solo dall’astenersi dal parlare ma dal creare il silenzio interiore.
È dal silenzio che può nascere la parola autorevole, acuta e penetrante, luminosa e capace di consolare. E non dimentichiamo che le nostre capacità di ascolto e attenzione sono direttamente proporzionali alla nostra capacità di fare silenzio, di moderare il nostro linguaggio, di ritmarlo con il silenzio. Chi parla troppo è destinato a capire poco, chi non chiude la bocca non apre la sua mente e si vita di pensare.